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STRANEZZE SPAZIALI – PARTE 5

Though I’m past one hundred thousand miles / I’m feeling very still / And I think my spaceship knows which way to go / Tell my wife I love her very much, she knows

Accade mentre sto spingendo l’AstroAlfa ai suoi limiti, in un tratto particolarmente pericoloso fra la provincia di Roma e gli anelli di Saturno. Attorno a me, bidoni della spazzatura e supernovae. L’astronave rolla e beccheggia, in balìa dei venti solari. Sferzano sempre troppo, ‘sti maledetti venti solari. Li odio.  Accade, e penso che non ci sia alcuna ragione a farlo accadere. L’ultimo pensiero che ho prima che accada è: quando sto seduto, il ventre si comprime. La pancia, il bozzo da ragno che mi sono costruito in anni di paziente apatia mangereccia, si sente ancora di più.  Poi. Poi. Poi. Poi. Non ci sono sbuffi di fumo, né, luci, né rumori, né odori. Semplicemente, lui è lì, sul sedile posteriore, vicino alla zona cargo della nave. Lo guardo dal retrovisore del ponte, voi terrestri lo chiamereste specchietto.

Dall’unica occhiata che riesco a dargli, direi che il giudice è arrivato.

Mi assomiglia. A dire il vero, è identico a me: naso, occhi, bocca, braccia, tutto. Ha persino i miei stessi vestiti…o sono io ad avere i suoi? In realtà, ovviamente, non è affatto identico a me. Non ha la pancia, tanto per cominciare. E quello conta enormemente. Non è…gonfio. Anche la postura è differente. lui se ne sta seduto diritto, in modo tranquillo. Non come me, che ho sempre la sensazione della gobba che mi cresce tra le scapole. lui non si contorce, non cerca di raddrizzarsi, non guarda fuori in maniera apatica e non digrigna i denti. Siede e basta, come io non riesco più a fare da tanto tempo. E’ soprattutto il suo volto a spaventarmi. Mi terrorizza fin nel più grasso recesso dell’anima. E’ un volto sereno. Non esageratamente felice, non pazzamente esaltato, non  profondamente triste, non irrimediabilmente  depresso, non follemente innamorato. Sereno, vi dico. Come quello di una persona che abbia provato moderate dosi di tutte queste emozioni, passando attraverso differenti fasi della propria vita, contrassegnate ciascuna da esperienze, attività, persone diverse: cose che l’hanno influenzata, ma non sommersa, nel bene e nel male.

E’ il volto di una persona normale.

Mi parla. Ha una voce senza picchi striduli o sussurri inquietanti. Eppure, sa farsi ascoltare benissimo.

-E alla fine, eccoci qui. Ce ne hai messo di tempo per salire quassù, e fare questo viaggio. Il simulacro di un’azione, ma è sempre meglio del divano, no?

“Che ne vuoi sapere tu??”

-Oh, io so, io so. Io so tutto. Ricordo tutto quanto, dall’esatto momento in cui sono nato. Vedi, la prima volta che hai ceduto non è stata come uno schianto fragoroso. Assomigliava più che altro ad uno scricchiolio, perso fra i meandri di un’enorme struttura. E’ stato allora che sono nato io.  Sono semplicemente quel te che non ha ceduto, che non ha scricchiolato. E che, da allora, ha imparato a non scricchiolare più. Da quel momento in poi, abbiamo proseguito su strade differenti…ma t’ho sempre buttato un’occhiata.

“Ma che cazzo ne vuoi sapere tu????????’ TU?????????? TU SEI MAGRO!!!!!!????!?!?!  E poi, nessuno è come voi eroi che non sbagliate mai, porcodiddio….”

-No, no, sei fuori strada. Nessun eroe. Niente muscoli guizzanti, spade lucenti o emozioni forti. Vedi, non è servito nulla di tutto questo. Imprese titaniche o disperate, sforzi compiuti al limite dell’umano…niente di tutto ciò è mai stato necessario.  Positività, un minimo. Volontà e autostima, quel tanto che bastava. Affidabilità, umiltà. Soprattutto, io non ho passato gli ultimi anni a distruggermi. So di avere un corpo mortale, soggetto al decadimento. Perciò, mi sono nutrito con moderazione e allenato con costanza. Ah, e ho riflettuto sulla mia vita. Le ho dato un valore. Ho stimato il mio tempo come qualcosa che valesse la pena impiegare per fare qualcosa di buono. Così, semplicemente, un giorno dopo l’altro, ho vissuto una buona vita. Non perfetta, né indimenticabile. Una vita quasi banale. Certamente migliore, credo, delle cento vite da condottiero, tiranno, sadico, genio, stupratore, osannato profeta che hai vissuto tu, chiuso nella tua stanza a marcire.

 

Non gli dico più niente, non credo che ce ne sia bisogno. Attendo, mentre ai lati dell’AstroAlfa sfrecciano corpi celesti dal verde putrescente. Come diceva quello? Meteore pallide, pianeti spenti, piovono gli angeli dai firmamenti.

-Adesso, credo ci sia solo una cosa che tu possa fare. Dopo una vita di rimorso e paura, compi almeno un gesto che ti definisca.

 

Passo dalla terza alla quinta. Il motore 1800 CV alimentato con la pulsante materia oscura dietro le stelle protesta. Ruggisce, addirittura. Non me ne frega un cazzo. Le paratie esterne schizzano scintille ovunque, mentre impattano sul guardrail che segna il confine dell’Universo conosciuto. Lo sterzo si muove da solo, e va che è una meraviglia.

La mia astronave fa il balzo nell’iperspazio.

Ground Control to Major Tom / Your circuit’s dead, there’s something wrong / Can you hear me, Major Tom? / Can you hear me, Major Tom? / Can you hear me, Major Tom?

Mentre l’Alfastronave si libera della gravità, ruggendo per un’ultima volta, mentre il suo cuore di ruggine si scrosta nella vampa del fuoco (compare alle nostre spalle, è alle nostre spalle, oh sì capitano, Bandito in coda, rosso come il Sole caldo come l’Inferno), io guardo sulla postazione del copilota. C’è il mio cellulare, lì. E sullo schermo appannato, compare la scritta GROUND CONTROL. Suona, vibra, si illumina tutto. Tendo i muscoli facciali, incuneati nel grasso, e sorrido. Scusa Ground Control, sarà per un’altra volta. La zona cargo è vuota, adesso. Sono di nuovo solo, solo nel mio viaggio fuori dalla porta. Fluttuando.

D’improvviso, vedo tutto. Eroi, eroine, amori drammi e grandi imprese, notti sorprendenti e spiagge illuminate dalla luna. Gente, ne vedo tanta. Fa un sacco di cose tutte insieme. E sono in tanti, a farle. D’improvviso mi rendo conto che il mondo non è statico. Solo io ero fermo.

—quello che estrassero dalla carcassa dell’auto non sembrava nemmeno respirare. ma viveva. viveva invece, e respirava e soffriva. ora avrebbe avuto menomazioni e dolori reali di cui lamentarsi, lamentarsene per tutta una vita, però era vivo—

(in una stanza illuminata dal sole, l’Autore sta finendo di scrivere. E’ quasi mezzogiorno, e vorrebbe andare a fare una passeggiata. Stuzzicata da pigra curiosità, la Lettrice osserva da dietro le sue spalle, e leggiucchia i fogli sulla scrivania)

LETTRICE: Perchè la fai finire così? Credevo che lui morisse. A che serviva allora la canzone?

AUTORE: Ti dirò, volevo farlo morire. Mi stava parecchio sulle balle come personaggio. Però…non so. La canzone l’ho messa perché mi piaceva e basta, e lui…penso che sarebbe più interessante non farlo morire. Vedere cosa succede dopo, cosa se ne fa della vita. Tutto qui.

Can you “Here Am I floating round a tin can / Far above the Moon / Planet Earth is blue / 

And there’s nothing I can do.”

STRANEZZE SPAZIALI – PARTE 4

Here am I sitting in a tin can / Far above the world / Planet Earth is blue / and there’s nothing I can do

La mia astronave dell’Alfa Romeo mi ha portato a destinazione, alla fine. Sono su un prato.  Un prato grande, davvero grande. Pianura sarebbe un termine più adatto. Alle mie spalle ci sono le colline, e le mucche mi pascolano attorno. Se non fosse per il fango e la merda, penserei di essere atterrato sul pianeta Arcadia. E invece no, sono ancora sulla Terra.  Sono arrivato fin qui per un motivo, un motivo che trascende lo stare sdraiati sul fango e sugli escrementi di vacca.  Qui si vede il cielo. Senza le luci cittadine, ho a disposizione un tappeto blu scuro segnato dalle luci stellari. Ed è tutto per me.  Al centro del cielo notturno (che poi non è il vero centro, ma chi se ne frega, è il MIO centro) c’è la Luna piena. Bianca che più bianca non si può, direbbe la pubblicità. Me ne sto rannicchiato contro la fiancata dell’Alfa SpazioRomeo a guardarla. Comincia a fare freddo, e il freddo è una cosa buona, perchè arriva fino alle ossa e mi permette di dimenticare gli strati superiori del mio corpo. Mi fa quasi sentire magro.

Sapete una cosa?

Siamo dei privilegiati, ad avere un satellite che ci orbita così vicino. E’ un altro mondo, un fottuto altro mondo, che possiamo rimirare ogni notte. Un messaggero delle regioni siderali, profonde e sconosciute, se mi passate la parlata da scrittore con tendenze psicotrope. Guardo la Luna, e comincio a chiedermi cosa si possa provare a vederla diventare sempre più grande in un oblò. Arrivare a distinguerne gli enormi crateri,  poi i macigni, infine i sassolini più minuti. E infine atterrare, e scoprire la sensazione che ti dà camminare su un altro mondo. Come suona bene, ripetiamo in coro: un altro mondo. La preoccupazione maggiore diventa quella di memorizzare ogni sensazione, ogni pensiero che passa per la testa. Cristo santo, quando ricapita di andare su un altro -fottutissimo- mondo? E allora, sotto con l’analisi. Analizza e memorizza la sensazione che ti dà il suolo, diversa da qualsiasi acciottolato o prato terrestre. Analizza e memorizza il terrore enorme, immenso, titanico che ti dà un cielo nero, con un Sole accecante ed un immenso lago azzurro che occupa tutto il resto.  Analizza e memorizza la consapevolezza -fallace, ma dillo alla paura che ti sta allegramente rivoltando le viscere- che il ciottolo butterato su cui ti trovi precipiterà dentro quell’enorme lago azzurro, svanendoci dentro.  Poi smetti di analizzare e memorizzare, e lasciati travolgere dalla realtà: sei su un altro pianeta, sei fuori del tuo mondo, sei in un luogo che non è stato concepito afinchè i tuoi occhi lo guardassero. Eppure ci sei, e puoi godere dell’immenso privilegio di guardare un semplice sasso, con la certezza di essere il primo uomo che vi abbia mai posato sopra lo sguardo. Dimentichi tutto: assicurazione, bollo auto, dichiarazione dei redditi, analisi del sangue, spazzolino da ricomprare, il cancro alla prostata dello zio, l’aneurisma del nonno. Ti lasci attraversare dalla corrente ad altissimo voltaggio dell’euforia: sei posseduto da un titano che sta avendo un orgasmo, e lo sta avendo dentro di te. Piangi.

Ecco, me ne sto qui a fissare la Luna fra il fango e i bovini. All’improvviso, sono lassù. Ora ho caldo, dev’essere la maledetta tuta. Ho pianto, e dalla sensazione credo d’essermi anche pisciato sotto. Provo a fare un passo. Per poco non svengo: allora, quella storia della gravità è vera!

Ci metto 10-15 minuti a riprendermi dalla nuova eiaculazione mentale che mi travolge. Qui, sulla Luna, potrei volare. Non servirebbero brevetti, patentini, deltaplani, aerei o biglietti. Dovrei solo fare un salto, e potrei praticamente spiccare il volo.

Poi mi giro, e vedo la Terra. La vedo tutta. C’è una cosa che dovete sapere, fatevelo dire da Major Tom, che nonostante depressione e affini ne capisce parecchio di certe cose.

La Terra è blu. Blu. Blu. Blu, capite? No, col cazzo che capite, perchè non siete qui a guardarla. Tornerò su quel pianeta, ingrasserò ancora o magari dimagrirò, invecchierò e prenderò una pensione, oppure diventerlò un barbone. Non importa. Nessuna cosa che potrò toccare, vedere o costruire sarà mai così blu. Dove viviamo noi, c’è solo il celeste stinto o l’azzurro tristezza. Forse l’Oceano ha qualcosa di simile, ma l’Oceano è uno spicchio di mondo. Questo invece è IL mondo. Blu, blu, blu. Blu ovunque. Un blu che s’irradia. Nero ovunque, sotto, sopra e intorno, nero in direzioni che non sono state ancora inventate: ma la Terra è blu. L’unica cosa blu dell’Universo. Emette una radianza azzurrina che smangiucchia qualche bordo oscuro allo spazio. Vista da fuori, questa palla solitaria non può mimetizzarsi: è un pianeta che ospita vita, che nutre la vita, che trabocca di essa.  Me ne sto rannicchiato contro la fiancata del modulo d’atterraggio a guardarla.  Fa un freddo mortale all’esterno e un caldo schifoso nella mia tuta, ma non m’importa di nessuno dei due. Mi limito a usare gli occhi, in silenzio. Osservo quello che le mani umane non possono assolutamente migliorare.

Il pianeta Terra è blu, e non c’è niente che io possa fare.

STRANEZZE SPAZIALI – PARTE 3

This is Ground Control to Major Tom / You’ve really made the grade  / And the papers want to know whose shirts you wear

Non può essere vero.  Non può essere vero.  Sto, devo stare sognando.

Peso di nuovo 86.7 kg, indosso un completo nero e ho la barba fatta. Sono in forma. Mio Dio. E’ il giorno della mia laurea, l’ultimo giorno in cui ho mantenuto le promesse e portato a termine la missione. L’ultimo giorno in cui sono riuscito ad andare a dormire soddisfatto, completamente soddisfatto. E quel giorno mi sono lamentato. Per poco non crollavo nel bagno dell’università. Tutto questo, per uno stupido voto. Dio mio, quanti anni saranno passati? Tre? Quattro?

Perchè devo sognare questo?!?! Gli incubi sono soltanto imitazioni malfatte di desideri, paure ingigantite, pulsioni inconsce e residui di salame piccante. Nulla di che: ci distraggono, mettono un pò di brivido e di imprevisto in vite autodesertificate come la mia, forniscono storie da raccontare al mattino. Ma il ricordo di un passato felice, che allora non sapevamo essere tale (e che dunque non abbiamo goduto appieno) è quanto di più terribile vi sia al mondo. Merito davvero tutto questo? Solo per aver consapevolmente gettato nel Grande Immondezzaio centinaia e centinaia di giorni, merito davvero questo?

Now it’s time to leave the capsule / If you dare

Il giorno della mia rovina è venuto e se n’è andato. Grazie ad esso, posso predire anche la vostra. Ricordatevelo: la rovina non arriva con le sfide. Non viene con le difficoltà, con le avversità, con i lutti, con le catastrofi. Sciocchezze. La rovina compare il giorno successivo al vostro primo trionfo. Arriva senza bussare, nel cuore della notte, e a mezzogiorno la sua ombra avanza sull’erba, pronta a far ammalare il Sole. In men che non si dica, tutto è stato attossicato. Alle sei di pomeriggio, il veleno sembra essere entrato in circolo ovunque. I momenti sono rovinati, rovinati, rovinati come se avessi un cementificio in azione nell’anima, intento a pompare tutti i veleni che può. Anche i cinque sensi ti tradiscono: il gusto diventa disgusto per ogni cibo: sono tutti troppo dolci o troppo piccanti. Il tatto fa sì che le mani si portino alla pancia, capace di crescere inesorabilmente notte dopo notte. La vista si appanna, e cominci ad avere paura del giorno in cui sarai  cieco. L’udito te lo indebolisci da solo, martellandoti dentro musica a tonnellate, frustando e spezzando la resistenza dei tuoi poveri timpani. Per l’olfatto bastano le sigarette. I muscoli si indolenziscono mostruosamente se t’azzardi ad usarli. Lasciali stare un paio di giorni, e resta solo grasso.  E tutto è successo all’indomani del trionfo, quando di fronte a mille porte aperte, avete deciso di fermarvi ad aspettare. Scoprirete a vostre spese quanto sia difficile ricominciare con un nuovo, singolo passo. Potevo osare, GC. Potevo osare, ma non ce l’ho fatta.

This is Major Tom to Ground Control / I’m stepping through the door

Sarebbe ora di chiamare GC.  E’ sempre ora di chiamare GC, se capite cosa intendo. Potremmo citare a memoria le scene più belle di E morì con un felafel in mano, potrei parlargli ancora del Barone di Munchausen. Oppure, potrei limitarmi ad ascoltarlo. Lui non lo sa, ma è quasi diventato il mio spettacolo personale. Stand up comedy per l’anima, vibrazioni positive, avvolgenti e spesso commoventi. Come quella volta che mi parlò del film di fantascienza sovietico in cui il cosmonauta esprimeva amore per tutta l’umanità, e fiducia nel futuro. O quella volta che parlò davanti a tutti di Orizzonti di gloria, ricordando come i soldati in attesa dell’esecuzione fossero stati praticamente ridotti a larve.  O quella volta, quella volta, e quell’altra volta, e quell’altra ancora. Potremmo anche insultarci e basta.  Oppure non parlare di niente. Con lui, le comunicazioni  non si interrompono. Nemmeno quando si è in silenzio. Non si chiama Ground Control per caso.  Adesso innesto la marcia e provo ad andare. Il cambio è duro come un sasso, lo sterzo è un pezzo di granito. I sedili dietro non ci sono più: solo falci e forconi. A farmi compagnia, qui nell’abitacolo, ci saranno almeno tre o quattro grilli, un paio di api e un bel tafano. Lo sento ronzare vicino al cruscotto, o forse dentro il cruscotto. Se attivo i tergicristalli, per fermarli devo spegnere l’auto. Se attivo gli abbaglianti, per fermarli devo spegnere l’auto. Probabilmente, per spegnere l’auto dovrò prima eseguire qualche complicato rituale che coinvolga sterzo, freno a mano, pompa dell’olio e un paio di buone bestemmie, quelle d’annata. Chi se ne fotte, io innesto e parto. Forse non arrivo, ma partire è già qualcosa. Il grasso si fa sentire un pò meno, stamattina. Fa freddo, e questa è sempre una buona cosa.

And I’m floating / in the most peculiar way / and the stars look very different today

35, 40, 45, 50, terza. 55, 60, 65, quarta. Oltre non  mi spingo, perchè sono un cagasotto.  Quest’affare pesa otto quintali e non frena. No, non serve spingere a fondo il pedale: non frena e basta. Meno male che sono in salita.  Vado su, su, su. In teoria, verso le montagne. In pratica, sto decollando verso Tau Ceti II, a occhio. La strada attorno a me si trasforma. Scorre veloce, sempre più veloce. Ai bordi c’è un nastro verde e marrone, sotto di me un nastro grigio che ogni tanto diventa color diamante. Sarà il tracciamento del segnale inviato dal radiofaro di riferimento, non so. Anche il mio ricognitore monoposto si sta trasformando. Il motore, vecchio di 29 anni, sta dando fondo a tutte le sue energie per me.  Il metallo si sposta, si fonde, si rimodella. Il rombo cresce e cresce ancora. Sopra la mia testa sono spuntati i flap. Papà li cercava sempre prima di partire, per simulare il decollo. Sapeva di farmi contento. Vado, vado, vado! Non mi ferma nessuno ormai. Sono in fuga dalla gravità. In un angolino della mia testa, l’unico non invaso da rutilanti immagini spaziali, una vecchia conoscenza mi intima di rallentare, perchè se incrocio qualcun altro stavolta facciamo il botto. E’ la paura a parlare. Affanculo la paura, e anche quelli che guidano senza immaginare sè stessi a dribblare frammenti nel bel mezzo della Cintura degli Asteroidi. Questo momento è solo mio, mio, mio dopo tonnellate di biscotti, milioni di cellule adipose, miliardi di momenti spariti nell’immondezzaio che mi sono costruito da solo, in ogni sua schifosa parte. Fra qualche ora mi starò ingozzando di nuovo, insensibile, silenzioso, afono nei confronti di me stesso. Adesso no, adesso stiamo abbandonando lo spazio conosciuto.

STRANEZZE SPAZIALI – PARTE 2

Take your protein pills / and put your helmet on

Sono le 12 e 40, e mi sto facendo la doccia. Stamattina avevo giurato a me stesso di svegliarmi alle 8, di lavarmi SUBITO, di sbarbarmi, di rifare il letto e arieggiare la stanza e fare gli addominali e fare una colazione sana e e e e. Ovviamente, nulla di tutto ciò. Stando all’ultimo computo,  ho rotto questo giuramento per 34 giorni di fila. Ho riacquistato peso alle 8 e 30, emergendo dal sonno. Sono corso immediatamente ad aumentarlo, quel peso, ingozzandomi con pane e nutella, fiumi di latte bollente e poi pane ed olio. Al mio sguardo porcino non poteva sfuggire il pranzo, lasciato indifeso sui fornelli. Dovevo scaldarlo alle 13: l’ho divorato alle 9. Sono diventato estremamente lento nel fare le cose, ma quando si tratta di ingollare cibo possiedo ancora la rapidità di un cobra. Sono tornato a letto, dove ho fatto finta di essere un astronauta perduto sotto le coperte di uno strano mondo onirico. Mi sentivo più che altro un cetaceo spiaggiato, a dire il vero. Ma si tratta di una sensazione che posso combattere, contenere, se rimango sdraiato. Quando sono in piedi, e mi rendo conto dei tre o quattro palloni da football che mi stanno crescendo dentro, vorrei subito buttarmi a terra. Ad ogni gradino che faccio, le mie ginocchia scricchiolano.  Povere le mie ginocchia. Eravate giovani e belle, e vi comporrei un poema omerico, se solo mi ricordassi ancora come si compone qualcosa. Ora mi sto lavando, perchè entro le 13 il bagno deve essere libero. In fretta e furia, come al solito, perchè ho indugiato nel letto finchè la mia camera non ha assunto lo stesso odore di una sauna frequentata da gorilla. Indosso la tuta, e più sformata è meglio è. meglio non azzardare dei jeans, non voglio vedere le mie trippe farsi strada attraverso il tessuto ed esplodere verso l’alto, irrompendo in cielo come il muso di Moby Dick prima dello schianto finale contro il Pequod.  Stamattina ha chiamato GC, e presto dovrò compiere il titanico sforzo di richiamarlo. Gli scaricherò addosso la solita razione di ansie, angosce, paure. Se non altro, dimagrirò spiritualmente.

Ground Control to Major Tom / Commencing countdown, / engines on / check ignition / and may God’s love be with you

Alle 13 e 53 entro in contatto con GC. Maledetto, benedetto GC.

-Allora, hai fatto qualcosa stamattina?

-No.

-Buffo, non me lo sarei aspettato, guarda. Major Tom, siamo qui da mesi, fermi che una pietra in confronto è Flash. Ci ho provato con le grandi esortazioni. Ci ho provato coi dibattiti. Ci ho provato illustrandoti la mia elaborazione filosofica dei doveri dell’uomo. Non ha funzionato niente. Ora, non vorrei sembrare un tantinello rude, ma che cazzo devi fà? Non vuoi vivere, non vuoi morire, ti limiti a mangiare così poi mi dici che sei grasso, a isolarti così poi mi dici che sei solo..

-Così poi, così poi, così POOOOOOOIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIII!!!!!!!!!!!!

-Ah no, non attacca Major Tom, hai capito?!? Basta con le urla, basta coi pezzi da matto, almeno tu fossi matto davvero! Almeno usciresti, e ti arrampicheresti su un palazzo; oppure, che ne so, resteresti in caso e ti prenderesti a badilate il batacchio, sarebbe pur sempre un fottuto qualcosa..

-Ti ricordi che cosa mi hai detto 11 mesi fa?

-E BASTA con questa ossessione di ricordare le cose, Major Tom! Ma guardare ogni tanto al domani? Ho capito che domani non è ancora, ma se è per questo, il passato non è più!

-Mi hai detto: “per che cosa fatichi?”. Io cerco ancora una risposta.

-Sì, cazzo, ma io ti avevo detto anche “Fà!”. Fai qualcosa,  Dio mio!

-Arrivederci, Ground Control.

-Vaffanculo, Major Tom.

Ho come l’impressione che passerò il pomeriggio a guardare spezzoni di vecchi film, leggere parti di vecchi libri, ascoltare pezzi di vecchie canzoni. Il solito fritto misto di nostalgia con contorno di tristezza, insomma.

Ten, Nine, Eight, Seven, Six, Five, Four, Three, Two, One, Liftoff

Oggi ho guidato per la prima volta in vita mia.  Da solo. Non so se fosse più grande la mia esaltazione, o l’impulso di pisciarmi sotto per la paura. Non ci vedo bene, sono un pericolo pubblico, il grasso si spalma sul volante come del burro su un toast, ma chi se ne FOTTE! Cerchiamo di capirci, per uno che si chiama Major Tom guidare la cosa più vicina ad un’astronave che sia accessibile alle tasche della classe media non è roba da poco. Se un’automobile potesse procedere in verticale, con un’onesta andatura di 100 km/h potrei raggiungere lo spazio in un’ora o poco più. E senza preoccuparmi delle curve, dei semafori, delle rotatorie e dei maledetti passaggi a livello. Ora, non so se voi avete ben capito di cosa sto parlando. Lo SPAZIO. Pronunciatelo con la giusta enfasi, e vi accorgerete che il vostro cervello sta ubbidendo a un impulso nato con la prima scimmia che abbia mai rivolto il proprio avido muso al cielo, maledicendosi per l’impossibilità di divorarlo. I vostri neurono stanno secernendo quintalate di immagini: galassie, nove, stelle vicine e lontane, satelliti con un look anni ’70 (Voyager 1 e 2 ci salutano, dovunque essi siano). Insomma, tutto il corollario di immagini iniettateci tramite i manuali di Scienze della terza media e i grandi libroni della De Agostini. I più colti stanno probabilmente riciclando nella loro mente qualche film di fantascienza. Un remix complesso e delicato, che frulla assieme il pianeta-genitali di Alien, il buon vecchio Alderaan (RIP) e tutte le stelle dipinte su panni neri, reperti di un’epoca in cui gli “effetti” erano “speciali” per il semplice fatto di esserci. Tutta questa roba fa da strato superiore di un immaginario che nasce chissà dove, chissà quando nel nostro più remoto passato. Purtroppo, la mia automobile può andare solo avanti o indietro. E questo significa che non è abbastanza potente da portarmi lontano da qui. Come potrebbe farlo? E’ più vecchia di me, e sembra addirittura più scassata. L’unica è godermi le marce, lo sterzo, i tergicristalli, tutte le luci e i pulsanti che ci sono, aggiungerne altri con l’immaginazione e pensare di essere a bordo di un ricognitore monoposto. Con la nebbia che c’è qua fuori, posso quasi pensare di essere stato inviato in un territorio sconosciuto, al di là delle carte stellari. Parto.

STRANEZZE SPAZIALI – PARTE 1

Ground control to Major Tom / Ground control to Major Tom

Stavo sicuramente facendo uno di quei sogni stranissimi. Le figure erano confuse, cangianti, si trasformavano in qualcosa e poi in qualcos’altro. Mi accorgo del risveglio perchè, d’improvviso, ho di nuovo un peso. Non che nei sogni si stia come piume al vento, intendiamoci: solo che quello è un peso di tipo diverso. Mentre sogni, a tenerti attaccato a terra è quella sensazione, unica e irreplicabile, di averli tutti addosso.  Chi siano tutti, non importa. Però sono lì, alle spalle, sempre un passo più vicini di quanto tu possa pensare. E loro si mescolano con l’altra grande sensazione che è propria del sogno: il tuo stesso rallentare, inesorabile. Vorresti muovere la mano, e a malapena si sposta un dito. Vorresti correre, e al massimo riesci a saltellare, come se fossi sott’acqua. Ecco perchè  loro ti prendono sempre, e il sogno finisce.  Il telefono suona, suona e suona. Non che stia chiamando nessuno: sarà qualche messaggio, tanto ho messo suonerie lunghissime per qualsiasi cosa. Dal momento che qualcuno si prende la briga di trillarmi, suonarmi, squillarmi, messaggiarmi e in generale mettere una mano nel mio buco e vedere cosa ne tira fuori, celebriamolo, dico io! Alzarsi è faticoso. Il peso del mondo fisico cresce ogni giorno. Io mi ci metto d’impegno. Panini alle quattro del mattino, torte, biscotti, mari di biscotti, MONTAGNE di biscotti, più sono grassi e più sono contento, oh sì. Sarò quasi a 110 adesso. 20 chili in due mesi, sfido qualcuno a fare meglio di me. Però riesco ancora ad arrivare al telefono con il braccio, prima che con la pancia. E’ GC.  Poteva essere solo lui. Mi chiede come sto, mi irride, mi insulta, come se servisse a qualcosa. Vado in cucina. Ho il grasso nelle ossa, negli spazi fra gli organi. Mi intasa le gambe, i fianchi, il petto. L’addome è gonfio come il bozzolo di un ragno. Arrivo fino al pacco dei biscotti, poi comincio la mia giornata.