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Viaggiare leggeri.

Tra le infinite cose che si sperimentano nella vita, quasi tutto è inutile.  Superfluo, temporaneo, ingannevole, distorcente. Alla fin fine, le personalità complesse o egocentriche (i sensibili sono ormai estinti) affondano perché non riescono a scrollasi di dosso ciò che è accaduto loro. Soprattutto, non riescono a gettare via il ricordo di quelli che li hanno fregati. Detto in due parole, bisogna viaggiare leggeri. Tantissime cose a cui davamo un’importanza capitale cinque o dieci anni fa, ora non contano più un cazzo. E quelle a cui diamo importanza oggi, beh…,finiranno allo stesso modo nel grande immondezzaio universale.

Fregarsene di tutto, dunque, e al tempo stesso godere della vita come di un avvenimento positivo.

Ah sì, e dimenticare chi ci ha fregato. Senza sognare infinitamente di farlo soffrire e sanguinare, di schiacciarlo, di umiliarlo. Senza vivere un’unica, infinita scena di tortura al rallentatore, con la telecamera mentale che indugia sul momento in cui lui/lei morde la polvere.

Quel bastardo.  Quella puttana. Quell’arrogante.

Quella persona che manco si ricorda il nostro nome, insomma. Ah, ma noi non ci siamo dimenticati il suo, potete ben giurarlo. Come faremmo senza quella preziosa ossessione? In fondo è rassicurante. Una compagnia fedele, che ci aiuta a trovare un elemento di routine nelle nostre giornate.

Viaggiare leggeri. Stingere tutto quello che c’è nella mente, perché non esiste più. Il tempo stinge a tal punto ricordi, persone e situazioni che potremmo aver vissuto la vita di un altro senza saperlo. I nostri passati sono, più o meno, tutti intercambiabili.

 

I don’t believe in bedtime stories.

Ci sono serate piovose, passate con la compagnia di un camino e un bicchiere di Fanta (l’unica cosa agguantabile in frigo). Fuori dalla finestra, si alza la nebbia: e un cervello malato di citazionismo allo stato terminale può pensare a due cose. Dato che non voglio soffermarmi sull’ipotesi “Ommioddio sono a Silent Hill, Cristo santissimo!”, provo ad aggiungere mentalmente i lampioni e i comignoli mancanti. Puf, una cittadina anonima è diventata la Londra edoardiana. Certo, la mia sedia non si arrende: rifiuta di trasformarsi in una poltrona. Ed io, d’altronde, rappresento l’offesa suprema al buon gusto dei gentiluomini britannici d’una volta. Va bene così. L’importante è volare, volare con la fantasia. Non si combina niente, ma è un niente dannatamente divertente.

Dunque, se un tizio a casa sua guarda la pioggia dalla propria finestra, e comincia a pensare a Londra (una certa idea di Londra, saldatasi negli anni attraverso quei film tè e pasticcini come Pomi d’ottone e manici di scopa, film dei quali Harry Potter è soltanto un figlio illegittimo), questo stesso tizio sarà anche abbastanza fuori di testa da vedere un’ombra svolazzare nella pioggia. Un’ombra ricollegabile ad una certa figura -silvana, irridente, vagamente inquietante-, resa celebre dal ritornello Puoi volar (che echeggia anche nella terrificante attrazione allestita a EuroDisney, sappiatelo).

Ora, a me Peter Pan o inquieta o sta sui coglioni. Tertium non datur: oscillo sempre fra questi due estremi.

Mi sta sui coglioni per la sua aura banalotta, buonista, che va dal film della Disney (quello del ’53, ma anche l’indicibile seguito direct-to-video del 2002) a innumerevoli riduzioni, pubblicità, ammiccamenti. L’idea che c’è in giro di Peter Pan è quella del bambino coi poteri magici, che ti trasporta in un mondo fantastico, che gioca con gli indiani, Gianni e Michele, eccetera. Il bambino innocente che non vuole crescere. Al massimo, sarà un pochino dispettoso. Una figura assolutamente innocua: in tal modo, una figura appiattita, priva di lati interessanti (per me). Non dimentichiamoci che, in Hook, la versione adulta del buon PP è uno yuppie. Verrebbe quasi da dire: “l’ho sempre sospettato”.

In altri momenti, Peter Pan mi inquieta. Profondamente. Innanzitutto, parliamo di qualcuno che non invecchia e, probabilmente, non può nemmeno morire. Come faceva notare acutamente una volta Davide Mana, l’autore di Strategie Evolutive (un blog che BISOGNA leggere, è un dovere morale), ormai nella narrativa popolare primeggiano figure eroiche abbastanza discutibili. Il vampiro, ad esempio. L’eterno giovane, in realtà vecchio di migliaia di anni. Un essere che si nutre della vita altrui (volendo, del tempo altrui). Non esattamente rassicurante. Ebbene, PP non invecchia. Resta eternamente uguale a se stesso. Come un vampiro. PP è irriverente, incolto, ed ignora le buone maniere, il “mondo degli adulti” rappresentato da Giacomo Uncino. Ha tutte le caratteristiche di uno spirito silvestre. D’altronde, PP è probabilmente un “bambino scambiato dalle fate”. Un Changeling. Figura non esattamente allegra. Ad ogni modo, non è neanche questo ad inquietarmi davvero. Il fatto è che l’aggettivo “silvestre” mi provoca incubi da quando ho letto I figli del grano di Stephen King. Un racconto che inevitabilmente alterato il mio modo di vedere fate, folletti, spiritelli e qualsiasi entità riconducibile al mondo naturale. In particolare, ciò che il protagonista del racconto trova entrando nella chiesa (il “Cristo volpino”), mi sconvolse profondamente. E da allora, non ce n’è più per nessuno. I lepricauni? Spiriti ubriaconi ed attaccabrighe. Le fate? Sono come le rappresenta Del Toro in Hellboy 2: possono mangiarti vivo. Peter Pan? Per carità! Forse si tratta di qualche impudente dio delle foreste, privo della propria memoria, che cerca ancora seguaci. Parodiando se stesso e i propri riti, ha formato i Bimbi Sperduti (in un altro tempo e luogo, i propri adoratori), e chiama a sé Wendy ubbidendo ad un antico impulso: in un’altra epoca, probabilmente, l’avrebbe condotta sull’altare sacrificale.

Questo lato oscuro, violento, istintuale di PP non me lo sto inventando (troppo): leggetevi il Peter Pan di Loisel, un fumetto amaro e disturbante. Nell’opera del francese, Peter è soprattutto un essere umano che vive di illusioni, e che decide consapevolmente di rimuovere quella parte dei suoi ricordi che sarebbe stata indispensabile al processo di crescita. A PP fa da contraltare Uncino, o James Hook se preferite. Uncino è il cattivo, e si sappia: nelle buone storie, è soprattutto il cattivo a funzionare. L’Uncino di Barrie è un gentiluomo fuori tempo massimo, incline a momenti depressivi, decisamente teatrale. Per parlar chiaro, Uncino è probabilmente un PP che sia stato costretto a crescere. Uno spirito silvestre in un corpo adulto, che ha appreso le regole dell’etichetta. Una figura tanto inquietante quanto quella di Peter: entrambi sembrano  non possedere un passato. Combattono la loro guerra eterna a Neverland, e tanto basta loro.

Penso spesso a Uncino e PP, soprattutto quando mi guardo le mani. Le mie mani che stanno invecchiando, si stanno modificando. Non sono più le mani dei miei quindici, sedici anni. Sulle mani sta scritto l’invecchiamento, e l’invecchiamento è l’araldo di cose che preferisco non nominare. Chissà, forse Uncino s’è mozzato la mano da solo, per non vedersela invecchiare. Ha dovuto tenerne una per non diventare completamente invalido. E quel piccolo brigante di Peter si sarà appropriato del fatto, inventandosi la storia del coccodrillo. Poco ma sicuro.

In Hook (Steven Spielberg, 1991), film non riuscitissimo, c’è un personaggio ben più grande dell’opera in cui si trova. Sgomita per saltar fuori, tanto è peculiare. Si tratta dell’Uncino di Dustin Hoffman. Uncino è mortalmente depresso, all’inizio del film, e tenta il suicidio. Cosa che i fan del film spesso non ricordano. Così come non ricordano questa sua frase: “La morte è l’unica grande avventura che mi rimane”.  La fata Trilly promette ad Uncino una nuova guerra, ed il personaggio si rianima. Ride come un bambino, si diverte come un adolescente e tortura come un adulto. Cerca di plagiare Jack, il figlio dell’odiato yuppie. Ammazza Rufio, il capo dei Guerrieri della Nott….volevo dire dei Bimbi Sperduti. Nel combattimento finale con lo Yuppie, capiamo che Uncino ha paura del tempo che vola via. Assai bizzarro, per uno che non ha niente da fare. Ma tant’è. Alla fine del duello. Si scoprono una o due cose interessanti. Uncino ha la parrucca (io, all’epoca, non me n’ero accorto. Ma sono sempre stato un fesso), ed è un povero vecchio solitario. Ha una nave pirata, ma nemmeno un amico al mondo. C’è chi sceglierebbe comunque la nave pirata, e fanculo quelle maledette sanguisughe che lo circondano. Nel film, tuttavia, questa non viene indicata come una scelta felice.

Dunque, Uncino muore, ingoiato dal coccodrillo. Urlando, invocando la mamma. Sì, la MAMMA. Prima di tutto questo, però, ha ancora il tempo di pronunciare la miglior frase del film, una di quelle che val la pena di incorniciare, per ciò che suggerisce più che per quel che mostra. Infatti, PP inizialmente risparmia Uncino. A convincere lo Yuppie sono senza dubbio i primi sentori dello scandalo Enron, nel quale verrà coinvolto di lì a pochi anni. Il suo bel contributo a questa scelta lo dà proprio Uncino, dicendogli: “In fondo, cosa sarebbe il mondo senza Capitan Uncino?”. Per molti, forse per tutti, questa frase non ha valore. Col passare degli anni, tuttavia, mi ha colpito in maniera crescente. Puoi essere la patetica caricatura di un adulto. Puoi vivere nella paura della morte, tua e di ciò che ami.

Ma…mettici dentro un pizzico di teatralità, e quel tanto che basta di megalomania. Allora scoprirai che, tutto sommato, persino al più grigio, noioso vincente mancherà (per un istante, solo un istante), la tua capacità di improvvisare.

Sarà la pioggia, sarà il periodo, sarà che non ho birra né dolciumi a casa. Ma stasera mi sento come sse aspettassi un Peter, un Peter qualsiasi, venuto per me. A farmi fuori, s’intende. In ogni caso, non accadrà.

 

-Have you come to kill me, Peter?      -I don’t believe in bedtime stories.

PIANGO, PALUDI DI PAROLE FATTE FANGO.

Il Soviet Supremo, preposto alla gestione di questo strumento figlio del turbocapitalismo spinto (c.d. Weblog) per decreto della XXXIV Segreteria del Partito Rimpiantista, Maniaco-Depressivo e Vittimista, ordina la sospensione giornaliera delle normali attività di blogging. La grande guerra per l’infiltrazione nelle strutture mediatiche del mondo occidentale, al nobile scopo di sovvertirle dall’interno, si vede oggi costretta a cedere il passo. Uno dei nostri funzionari, evidentemente al soldo delle mercificanti, decadenti e lagnose potenze stranieri, è entrato nella Sala Comandi (tutti i blog hanno una segreta e onnipotente Sala Comandi. Credete che dietro queste rassicuranti lettere vi sia un uomo solo, magari un pò depresso, che scrive accanto al fuoco? Sciocchi!! Ecco perchè la Cina vi rompe il culo!) ed ha modificato l’Ordine Pianificato dei Post, deciso nel corso dell’elaborazione del XVII Piano Settennale. Che il suo nome sia maledetto, e dimenticato: i nemici del popolo non hanno diritto ai ricordi. Domani, questo traditore controrivoluzionario sarà in viaggio verso un Centro di Rieducazione ubicato a Merano di Romagna (Daghestan Meridionale). Nel frattempo, ci vediamo costretti a pubblicare i suoi deliri capitalistico-egotistici. Non leggete, compagni! Ricordatelo: il vero militante segue le direttive del Partito, si spacca di canne, tromba le tipe coi rasta, si spacca ancora di canne, esce a San Lorenzo e vive a Monti, vede un paio di film di Truffaut per credersi qualcuno, scopa trentenni annoiate, va in vacanza a Barcellona, s’incravatta, passa dalle canne alla cocaina e continua a seguire le direttive del Partito. Il trionfo del Depressivismo arriverà solo seguendo queste illuminate direttive, non traditeci!

Avrei voluto trovare parole migliori, e gesti migliori.  Avrei voluto ridere di più. Guarda che ne sono capace, sai? E so anche fare ridere! So essere caustico, vulcanico, a tratti incontenibile come un fiume in piena. Nessuno l’avrebbe detto, osservandomi da bambino, ma ho ci provo gusto ad essere un animale da palcoscenico. Posso essere arrogante, ambizioso, egomaniaco. Che è meglio di come sono adesso. O di come mi sono comportato con te. In tua presenza, al telefono, ascoltando la tua voce o guardando semplicemente una tua foto. Se non mi fossi pianto addosso, se non fossi stato lì a lamentarmi per quella serie infinita di sciocchezze? Cosa sarebbe successo? Forse avrei potuto cambiare tutto. Ho imparato che, effettivamente, è come dicono. la tua attitudine verso il mondo lo cambia; puoi modificare la realtà attorno a te, essere libero, essere felice.  Puoi persino provare a stare con chi desideri.  Come diresti tu: it’s always too late. Troppo tardi per provare, troppo tardi per cambiare. Tu sei già oltre, nemmeno ti scorgo in lontananza. Una possibilità svanita. Una persona splendida che sfuma pian piano.  Il suo volto si aggiunge alla lunghissima galleria dei ricordi.  D’ora in poi abiterai il crocevia fra ricordo, incubo e rimpianto. Un’orrida landa popolata dalle ombre delle possibilità sfumate. Lì, assieme a tutte voi, vivranno anche i futuri che ho gettato via.  Li ho soffocati nella culla, perchè troppe volte ho scelto di non scegliere: e così, pian piano, ho fatto della mia vita un deserto. Una devastazione totale, implacabile, realizzata senza pianificazione o sforzi particolari: è bastata l’inerzia a far scivolare i miei passi, pian piano, verso questo limbo.  Ora sto finalmente riuscendo a completare l’opera. Forse, it’s always too late anche per questo. Chi lo sa? Forse avrei dovuto ammazzarmi tanto tempo fa. Come diceva quel tale, meglio morire al culmine delle proprie potenzialità, affinchè gli altri possano ricordarci come un talento sfumato, anzichè lasciarci raggiungere dalla fine quando, grigi e curvi, avremo già deluso ogni aspettativa. Ma per quello, it’s always too late.